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Ultrareale
Il ruolo dell’arte oggi, da poco entrati nel terzo millennio, è più che mai complesso da definire. Esaurito quasi del tutto il compito delle avanguardie, oramai così irrigidite sui propri schemi mentali da essere diventate la vera accademia, tocca forse proprio alla pittura il compito di ripensare l’arte tutta. La pittura così bistrattata in passato è oggi la testa di ponte di una rivoluzione del gusto tesa a recuperare la tradizione e il bello. Ma è qui che l’affare si complica. Che cos’è il bello e che ruolo ha oggi la bellezza? Quando nel 450 a.C. Policleto scrivendo il Canone gettava le basi dell’eterna aspirazione al bello, l’arte ricercava nella proporzione perfetta una rassicurazione che andava ben oltre l’estetica per sfiorare ambiti che toccavano l’assoluto. Oggi, al contrario, il bello è un concetto che sembra essere diventato antitetico all’arte, qualcosa che pare indebolirla. La bellezza è lasciata al passato, quasi una concessione (un volto di Raffaello, una Venere di Tiziano), mentre l’arte contemporanea sente il dovere di essere disturbante, dolorosa, antigraziosa. Damien Hirst raccoglie centinaia di migliaia di mosche morte e le intrappola nella resina, Marina Abramovic si incide il ventre fino a farlo sanguinare, Andres Serrano si chiude in un obitorio a fotografare cadaveri di cui ci restituisce lo sguardo vitreo e la pelle cerea, e chi cerca di strapparci un sorriso – Jeff Koons – lo fa toccando le nostre corde più superficiali, edoniste, ingigantendo palloncini a forma di cane in acciaio verniciato (e facendone milionari record d’asta) e seppellendoci nella melassa del kitsch.
Giampiero Abate, pittore a tutto tondo con un’indiscutibile padronanza della materia, decide di scompaginare le carte e di lavorare sulla bellezza. Non solo perché di bellezza (e perfezione, e armonia) sono intrisi i suoi lavori, ma perché è proprio un’indagine intorno al bello e al nostro rapporto con esso quella che sta alla base della sua nuova serie di opere.
Ultrareale non è un titolo scelto a caso. Ultrareale è qualcosa che va al di là del reale, non perché lo superi in precisione (non è iperreale, per intenderci), ma piuttosto perché lo trascende. La perfezione tecnica non è arte. E’ un’arte, ma non è l’arte. L’arte è il genio di chi sa usare la propria abilità pittorica per andare a fondo e raccontarci qualcosa che non sappiamo. O forse – meglio ancora – qualcosa che dentro, in fondo, abbiamo ben chiaro, ma che non abbiamo la forza di tirare fuori. L’opera d’arte è tale e raggiunge il suo scopo quando l’intenzione dell’artista, fatalmente personale, incontra l’universale e dunque lo spettatore, che improvvisamente avverte come una scossa. Un riconoscimento. Questo accade davanti ai lavori di Giampiero Abate, che riesce a dare all’algida perfezione di un dipinto ad aerografo la potenza emotiva che tocca dentro e che ci costringe a pensare.
Parte dai solidi platonici, questo progetto: quanto di più perfetto si possa pensare nell’universo. Citate da Platone nel Timeo, studiate da Piero della Francesca e da Paolo Uccello, indagate da Luca Pacioli e illustrate da Leonardo da Vinci, queste cinque forme hanno attraversato nei secoli la storia dell’arte e la storia della scienza, affascinando per la loro assoluta regolarità. Il tetraedro, l’esaedro (o cubo), l’ottaedro, il dodecaedro e l’icosaedro sono gli unici solidi che hanno per facce poligoni regolari congruenti e spigoli e vertici equivalenti, e sono anche le uniche figure che, inscritte in una sfera, hanno tutti i loro vertici sulla superficie di questa. La perfezione assoluta, dicevamo. Dunque un’idea totalmente astratta? No. E qui comincia quel delizioso cortocircuito tra reale e artificiale che sottende tutte le opere di questo progetto. I solidi platonici non sono astratti, ma esistono in natura. Il cloruro di sodio, per esempio, si dispone in esaedri, mentre i cristalli di fluoruro di calcio hanno la forma perfetta dell’ottaedro. Una sfida alla nostra natura fallibile e confusionaria e un supporto al nostro bisogno atavico di ordine che gli artisti del passato hanno usato di volta in volta come soggetto dei propri studi sulla geometria e sulla prospettiva ma anche come dimostrazione di virtuosismo, ingaggiando vere e proprie gare. E non solo nel passato remoto. Se Paolo Uccello ci lascia nelle piastrelle della Basilica di San Marco a Venezia esempi di squisiti trompe-l’oeil con dodecaedri stellati inscritti dentro cerchi di esaedri, Salvador Dalí decide di ambientare l’Ultima Cena oggi alla National Gallery di Washington al riparo di una struttura architettonica che si intuisce essere un dodecaedro, con parte delle facce aperte verso il cielo.
L’operazione di Giampiero Abate, però, è totalmente diversa. In un’epoca come la nostra votata alla perfezione e al controllo (non ultima la perfezione fisica), un artista con la sua abilità non poteva che essere attratto dal cortocircuito mentale che la bellezza e la perfezione sono in grado di cerare. La verità e l’artificio, dunque, il reale e l’ultrareale giocano di sponda in questi lavori, creando nello spettatore un continuo senso di spaesamento dovuto a una tecnica che definire fotografica è troppo poco. Il solido platonico, qui, non è pretesto per una dimostrazione di virtuosismo, quanto piuttosto protagonista, fulcro ideale dell’opera. Librato nel nulla come un pianeta alieno, inattingibile nella sua perfezione, l’oggetto geometrico appare dotato di una sorta di potere oscuro che ci mette di fronte alla nostra finitezza terrena con una crudeltà quasi brutale. Accanto a lui – antagonista impari in questa battaglia, ma intenzionato a lottare fino alla fine – appare l’uomo. Le figure di Giampiero Abate, uomini e donne, ci offrono una versione 3.0 di quello che da sempre abbiamo imparato a leggere come il nudo nell’arte. Le figure maschili classiche (da Policleto a Michelangelo, fino a Robert Mapplethorpe) così come le veneri (da Tiziano a Manet, da Helmut Newton a Marc Quinn) diventano qui corpi asettici e perfetti, così perfetti da lasciare nello spettatore un senso di inquietudine. Creati dall’artista attraverso un sofisticato software 3D, questi uomini e queste donne non hanno alcuna parentela con la realtà, e proprio il fatto che non siano stati realizzati davanti a un modello reale li rende incredibilmente vicini a quei solidi con cui condividono lo spazio. Il gioco – badiamoci – è incredibilmente sottile. Pensiamo a Rodin. Quando nel 1877 lo scultore presenta al Salon la sua Età del bronzo, non è ancora considerato un maestro assoluto, come accadrà qualche anno dopo. All’epoca è un giovane artista molto promettente. Ma quell’opera è troppo. Troppo vera, troppo viva. Così viva che l’artista viene accusato di aver fatto un calco dal corpo del suo modello, e viene aperta una commissione d’inchiesta. La colpa di Rodin è quella di aver interpretato troppo bene la realtà: il suo nudo non ha la muscolatura perfetta, idealizzata come nella statuaria classica, ma l’artista è stato talmente abile da ottenere l’effetto della pelle che, con la sua morbidezza, attutisce il volume del muscolo. Giampiero Abate intraprende qui un percorso simile, ma inverso: illudendoci sulla perfetta realtà dei suoi soggetti attraverso la verosimiglianza dell’epidermide, il dettaglio dei muscoli tesi nello sforzo, la resa serica dei capelli, ci intrappola in un’illusione che l’effetto tridimensionale della sua pittura enfatizza fino a darci la tentazione di allungare la mano per saggiare la rotondità di quella spalla, il piccolo rigonfiamento della vena. Poi però l’artista decide di dare a quelle figure occhi bianchi e vuoti, gli occhi della statuaria classica. E’ qui che noi restiamo incastrati nell’immagine. Perché tutte le certezze assolute che ognuno di questi dipinti ci fornisce vengono smantellate una dopo l’altra. Non appena siamo convinti di avere compreso, un dettaglio ci dimostra inesorabilmente che siamo sulla strada sbagliata. Il cortocircuito tra reale e artificiale diventa così un percorso dialettico nel quale se il reale è la tesi e l’artificiale è l’antitesi, la sintesi non può che tradursi in quell’ultrareale di cui parlavamo prima. Cos’è dunque l’ultareale? Un mondo che trascende la realtà, un ambiente asettico e perfetto in cui la nostra tensione verso la perfezione impossibile si scontra inesorabilmente con qualcosa di infinitamente più grande di lei, in grado di annientarla; un mondo in cui questa natura umana imperfetta e mortale deve fare i conti con l’impossibilità di realizzare il suo sogno di perfezione e di immortalità. Sogno, tuttavia, al quale non è in grado di rinunciare. Verità e artificio, dunque, vita e assenza di vita, possibile e impossibile, reale e ultrareale si fronteggiano qui in una battaglia che prende le forme di una caduta inesorabile dall’illusione, caduta non solo fisica, ma anche metaforica. Precipitanti in torsioni di sapore manierista oppure già abbattuti al suolo, mentre la perfezione geometrica incombe su di loro pronta a schiacciarli, i semidei di Giampiero Abate ci mettono in guardia contro le nostre ambiziose aspirazioni di controllo del mondo e del nostro destino. In una società dove la chirurgia estetica ci consente di trasformare il nostro corpo quasi senza limiti, dove tutti noi possiamo provare l’ebbrezza di sentirci un po’ dei, ricreandoci a immagine e somiglianza di quello che vorremmo essere, l’opera di Giampiero Abate nella sua impeccabile perfezione ci mette di fronte a noi stessi e a quella finitezza che dovremmo amare, in quanto segno innegabile della nostra umanità. Con una pittura intrisa di tradizione, potente nel messaggio, dove la statuaria classica e la magnificenza del Rinascimento incontrano la sottile inquietudine del surrealismo e la pulizia algida dell’arte digitale, Giampiero Abate tela dopo tela ci racconta il cammino dell’uomo alla ricerca spasmodica del superamento di sé. E i suoi eroi, i suoi guerrieri, le sue valchirie e i suoi semidei ci appaiono alla fine, pur nella loro gelida perfezione, intrisi di una terribile e disperata umanità che di colpo ci apparenta a loro, ci rende empatici. E ci racconta anche un po’ di noi.
Alessandra Redaelli (maggio 2019)